Ritratti d'autore: YES

In un prezioso cofanetto uscito negli anni novanta, che racchiude in 4 cd la storia della prog-band inglese, è contenuto un elegante album dove si fa riferimento al paradosso chiamato YES; qui viene evidenziato come la band nasce sul finire degli anni sessanta, diventa pioniere del movimento progressivo nei 70's,  rinasce negli anni ottanta ed infine si reinventa negli anni novanta. Noi aggiungeremmo, visto i tempi, che stupisce nel nuovo millennio.

Ma andiamo per ordine e cominciamo con il dire che l’idea iniziale di allargare il raggio d’azione della musica pop-rock, per quanto interessante non fu originale. Già a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, diversi gruppi musicali avevano determinato una rottura drastica con il passato e avevano così superato, fondendoli, rock e jazz, pop e classica: i primi sperimentatori del genere furono i Nice,Procol Harum e Moody Blues.

La grandezza degli Yes sta non nell’aver inventato, ma nell’aver sublimato quest’unione apparentemente inverosimile, diventando la più grande band di rock sinfonico. E’ Chris Squire il vero fondatore del gruppo, virtuoso bassista che possiede la preparazione tecnica ed un particolare tocco “jazzy” che definiscono in modo inequivoco quello che viene detto “suono alla yes”. Ben presto giungono musicisti validissimi che negli anni si alternano, ma a noi piace chiamare Yes la formazione  classica formata da Chris Squire, Steve Howe alla chitarra, Rick Wakeman alle tastiere, Bill Bruford alla batteria e Jon Anderson “l’usignolo” alla voce.

Nel 1969 esce l’album omonimo: è un buon esordio anche se appare slegato e disuniforme mentre il successivo “Time and a word”, del 1970, convince il pubblico con canzoni solari ed una musica multiforme. Ma è fra il 1971 ed il 1974 che la stella Yes comincia a brillare. Tre capolavori in sequenza, “The Yes album”, “Fragile” e “Close to the edge” lanciano la band verso un successo devastante; fortunata anche la collaborazione con l’artista Roger Dean autore  delle tante copertine surreali degli Yes.

Le tematiche a cui attinge la band sono di natura futuristica in un impasto sonoro ricco di fughe soliste, ma anche di precisione collettiva. Il chitarrista Steve Howe si distingue per la sua particolare tecnica strumentale: morbido e fulmineo al tempo stesso, e lontanissimo dai toni pacati cari a Steve Hackett, colpisce per l’asprezza della sua chitarra che ha tutto il fascino della ribellione.

L’imponenza delle tre grandi opere però, finisce per ereggere un muro invalicabile davanti alla creatività dei musicisti che mai più sapranno ripetersi a quei livelli. Se escludiamo “Relayer”, ancora a freccia in su, già da “Tales from topographic oceans” la band sprofonderà in un anonimato creativo, molto scarno di fantasia musicale. Il declino è inevitabile e vertiginoso con “Tormato”, “Drama” fino a “Big generator”, anche se tra questi c’è ancora un ottima prova con “Going for the one”, nella forma di una superba suite quale “Awaken”. 

“Owner of a lonely heart”, canzoncina del 1983, ha anche l’aggravante di aver fatto conoscere gli Yes ad un pubblico profano. Per tornare al paradosso iniziale, sul finire degli anni novanta esce un discreto “Homeworld”, mentre il nuovo millennio si apre con un inaspettato ritorno al progressive sinfonico con “Magnification”. E’ proprio vero che la classe non è acqua e non si riesce  a capire come abbiano potuto pescare questo jolly! Il disco è semplicemente fantastico e, come se non bastasse, è disponibile un dvddelizioso dove la cosa più emozionante è vedere quel vecchietto di Steve Howe mentre suona, con la disinvoltura di trent'anni fa, "Mood for a day". Che classe!

Michele De Felice & Valerio De Felice

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